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Gen 14, 2016 Romanistadentro Approfondimenti, As Roma News, asroma, Calciomercato, News 0
Non si può certo sostenere che l’esonero di Rudi Garcia sia arrivato come un fulmine a ciel sereno. Annunciato da metà dicembre, poi congelato nella speranza che l’anno vecchio si portasse via scorie e incertezze, e infine divenuto inevitabile, anche se qualche dubbio sulle modalità resta.
Pallotta “disgustato”, Garcia che non si dimette e accetta l’umiliazione di dirigere 2 allenamenti già da defenestrato e il viaggio americano di Spalletti, quando non avrebbe guastato l’arrivo in Italia del presidente, così per congedare mister Rudi vis a vis.
Ma cosa fatto capo ha, e semmai colpisce come meno di 20’ dopo, sul sito ufficiale del club fosse già apparsa una scheda contenente un riassunto in 10 punti dei 2 anni e mezzo di permanenza a Trigoria di Garcia. Che fosse già pronto?
LE ATTENUANTI – Ma di cifre realmente significative ce ne sono poche. O forse molte, perché i 26 gol di Gervinho, capocannoniere dell’era francese, spiega molte cose: l’ivoriano, insieme a Digne, è stato infatti l’unico giocatore realmente richiesto da Garcia alla società, sempre difeso e schierato titolare appena possibile, anche nel primo scorcio dell’attuale stagione, dopo che Sabatini & c. avevano abbondantemente scaricato l’ex Arsenal, a lungo vicino al trasferimento in mete esotiche.
Peccato che Gervais avrebbe dovuto essere la tessera finale di un mosaico di mercato rimasto sempre mancante. Di un centravanti, ruolo rimasto simbolo dell’incompiutezza dell’era americana: “soffocata” dalla presenza ingombrante di Francesco Totti, la maglia numero 9 è rimasta di fatto sempre scoperta.
Dall’addio di Osvaldo alla fugace esperienza di Borriello, fino all’illusione Destro e le difficoltà di Dzeko, luì si vero nueve, ma rimasto intrappolato in colpe non proprie. Bensì di chi in estate non ha capito che il film andava interrotto per tempo.
“Non è vero che tutti i tifosi vogliono l’esonero di Garcia” così, solo 2 giorni fa, si era espressa Francesca Brienza, giornalista di Roma Tv e compagna di vita del tecnico francese. E allora, ecco una carezza, con la pubblicazione sul profilo twitter della società dei messaggi di saluto dei tifosi. In apparenza, affetto a fiumi, ovviamente non da parte di chi si è astenuto, gli stessi che hanno bombardato di fischi i giocatori giallorossi, e non solo di riflesso il tecnico, dopo le disastrose partite contro Bate Borisov e Milan.
Buona parte della tifoseria è concorde con la scelta, inutile negarlo, ma forse non con i tempi: perché recidere il filo a inizio stagione avrebbe fatto il bene di tutti, dello stesso Garcia e della società, ora costretta a rinnegare il sogno Conte, destinato ad altri lidi.
I CAPI D’ACCUSA – Difficile tracciare un bilancio dell’era francese. Che si chiude senza titoli e senza aver mai dato la sensazione di poter concorrere per ottenerli. Doveroso ricordare come tutto cominciò. Con l’ambiente depresso dalla sconfitta nella finale di Coppa Italia contro la Lazio e dai primi flop americani, targati Luis Enrique, la scommessa, e Zdenek Zeman, l’idolo dei tifosi di ritorno proprio come il successore di Garcia.
Delle speranze e dell’entusiasmo contagioso vissuto durante la conferenza di presentazione oggi rimangono solo briciole. Beffarde. A partire parole dello stesso Pallotta (“Rudi l’ho scelto io e resterà qui per molti anni”) e del tecnico: “Lavorerò per la felicità dei tifosi, ma per ora preferisco non affrontare temi tecnici e tattici, né parlare degli obiettivi di classifica”.
Il presidente, malgrado proprio e delle proprie tasche, non è stato di parola. Il tecnico, involontariamente, sì, perché quel negarsi sul piano tattico ne avrebbe poi guidato l’intero percorso. Sostenere che la squadra abbia giocato contro l’allenatore francese sarebbe una bugia, non però affermare che i giocatori siano arrivati alla medesima conclusione: uomo dalla professionalità spiccata, lavoratore instancabile, ma non altrettanto impeccabile dal punto di vista del lavoro sul campo, leggi proprio addestramento tattico, né su quello motivazionale.
Il fatto che il gioco si sia inaridito nel tempo è però innegabile: dal possesso palla volto a rapide verticalizzazioni del primo anno si è passati a un confuso difesa e contropiede a partire dalla seconda parte della seconda stagione, vissuta cercando di andare in vantaggio il prima possibile per poi arroccarsi in difesa e puntare sulle ripartenze, arretrando il baricentro all’inverosimile. Troppo poco anche per non sfiduciare i giocatori.
L’INIZIO DELLA FINE – Provando infine a tracciare i punti di svolta, in negativo, non si può prescindere da 4 date. Il 5 gennaio 2014, ancora imbattuta, la Roma si presenta allo Stadium per sfidare la Juventus capolista di Conte: non c’è mai partita, finisce 3-0, a De Rossi saltano i nervi e la corsa scudetto di fatto termina qui, dopo l’illusione delle 10 vittorie consecutive a inizio campionato, peraltro strozzata da quei 5 pareggi di fila che fecero intuire i limiti di personalità del gruppo e di chi lo guidava.
Stesso stadio, stesso esito il 5 ottobre dello stesso anno, quando il 3-2 delle polemiche e del violino sotterrò forse per sempre l’illusione giallorossa. Con ancora tutta la stagione davanti, Garcia si avvitò tra vittimismi e proclami, dichiarandosi sicuro di vincere lo scudetto. In quello stesso momento prese forma una slavina divenuta poi inarrestabile, che fornì alibi ai giocatori e mise a nudo le difficoltà del tecnico a gestire i momenti di difficoltà.
Il passo fu breve verso l’inverno nero dei tanti pareggi, dell’umiliazione contro il Bayern e del secondo posto acciuffato all’ultimo secondo. Una settimana dopo, prima dell’ultima giornata, Garcia annunciò che anche la stagione successiva vincere sarebbe stata un’utopia. Qui si spezza anche il filo dell’amore con i tifosi, che lo fischiano per la prima volta, e con la società.
Che a giugno ne valuta l’esonero, poi scongiurato anche per motivi economici, per poi commissariarlo imponendo propri preparatori atletici. Il resto è la storia di una convivenza diventata insostenibile e protrattasi troppo a lungo. Ed è pure il paradosso di chi voleva vincere e si è congedato dopo due pareggi.
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